
Sono partito per l’India pieno di attesa e di incertezza. Attesa per questa esperienza di casa-famiglia, perlopiù in una terra così “misteriosamente straniera”. Incertezza perché non avevo nessuna esperienza di una casa-famiglia e l’incontro con dei ragazzi sconosciuti, dai 6 ai 20 anni, poteva essere denso di insidie: sappiamo quanto sia delicato il rapporto con i ragazzi di oggi, almeno in Italia, e quanto possa essere difficile la vita in famiglia. Io inoltre ho 60 anni e da un po’ di tempo non sono più “allenato” con gli adolescenti!
Mi hanno fatto una bellissima festa di accoglienza, riempiendomi dei tradizionali fiori, di balli e di tanto calore. È stato facile legare con loro, perché mi hanno aperto fin da subito la porta del loro sorriso. Il popolo indiano è normalmente sorridente, sicuramente molto di più di noi. Io, prima di partire, mi ero un po’ documentato sulle storie individuali dei ragazzi, in modo da esser preparato ad affrontarli, e devo dire che alcune storie erano quasi da romanzo, ma di quelli “da piangere”. Molti ragazzi erano orfani, tanti altri avevano perso uno dei genitori, tutti non avevano una famiglia che li potesse mantenere né tantomeno farli studiare. Con quel bagaglio sulle spalle, con il loro passato io mi sarei aspettato un velo di tristezza sul loro volto, mentre ho trovato solo dei grandi, bellissimi, caldi sorrisi. Non mi illudo che nel loro intimo non ci possano essere, qualche volta, dei momenti tristi, ma quello che sicuramente prevale di gran lunga è il sorriso e la gioia di vivere. Sicuramente un gran merito di tutto ciò va alla casa che li ha ospitati ed al lavoro del personale che li assiste e che li segue, sia dall’Italia che dall’India.
Al mattino ci si alzava molto presto al ritmo della musica e dei balli: gli indiani vanno pazzi per la danza, ed appena possono ballano i “videoclip” che vedono alla televisione. A Bhavitha ci sono anche alcuni ragazzi bravi, alcuni addirittura con la qualifica di “ballerino professionista”, che creano e guidano le varie coreografie. Dopo i balli e la doccia, una mezz’oretta di studio e di completamento dei compiti per la giornata e poi colazione. Purtroppo in India anche la colazione è quasi sempre piccante, e per noi partire al mattino con riso e crema di nocciole al peperoncino non era facile. I ragazzi più piccoli, fino alla nostra terza media, si fermavano a scuola fino alle 16, per cui si portavano il pranzo che il cuoco preparava per loro di buon’ora. Noi normalmente accompagnavamo a scuola i più piccoli, come avrebbe fatto un papà e davanti alla scuola eravamo l’attrazione dei loro compagni, poco abituati a vedere degli stranieri in quella zona. In più avevamo sempre con noi la macchina fotografica per fermare momenti di vita indiana (che sono assolutamente imprevedibili, e quindi bisogna essere pronti a cogliere l’attimo), o espressioni dei bambini, e questo ci rendeva molto “ricercati”. I ragazzi più grandi invece andavano scuola più tardi, e quindi al ritorno ci fermavamo un po’ con loro a commentare le notizie del giornale, i risultati di cricket, i videoclip e facevamo eventuali programmi per la giornata.
Verso le 10 la casa era finalmente silenziosa. Il cuoco preparava il pranzo, si facevano le pulizie, il bucato, la spesa, si organizzavano i giochi per il pomeriggio. Andando a fare la spesa ci si imbatteva nella caotica vita indiana, nel traffico impossibile, assolutamente senza regole, dove tutto è permesso, nei venditori ambulanti, nelle mucche, nei locali che vendevano il “chai” bollente, negli artigiani dotati di attrezzature per noi comiche, nelle donne colorate di “sari”.
Camminare ogni giorno per un paio di chilometri nelle strade di Hyderabad garantiva una ventina di foto di situazioni curiose e di facce indimenticabili. Dopo 50 giorni sono tornato con quasi 2000 foto, ognuna delle quali ha una sua storia ben precisa, ed un ricordo vivo. Luoghi, persone, situazioni, tradizioni, il tutto quasi sempre condito dal sorriso dei protagonisti.
Dopo il pranzo, sempre a base di riso con qualche salsa e verdura molto piccante, cominciavano a tornare i ragazzi, ed iniziava il tempo libero. Giochi in casa ed all’aperto: bicicletta, basket, cricket, volano, “carrom board”, biglie di vetro, danza, televisione. È stato bello ritornare a giocare per strada, in campi da gioco improvvisati, senza “playstation” e con giochi semplici ed eterni.
Un paio di volte alla settimana è il momento del bucato per i ragazzi, ed allora tutti a lavare, a schizzarsi, a scherzare; alla fine la terrazza di Bhavitha diventa una distesa multicolore di panni.
Verso le 18 si passava ai compiti ed allo studio: io cercavo di aiutare i più piccoli in matematica ed in inglese, le uniche materie che non avevano la barriera della lingua. I più grandi sono invece molto coscienziosi, studiano da soli, qualche volta li aiutavo in chimica o fisica, mentre anche loro si rendono disponibili ad aiutare i fratelli più piccoli. Mi sembrava di ritornare ai tempi in cui aiutavo mio figlio, proprio come in famiglia.
Dopo lo studio, cena con l’immancabile riso piccante e poi presto a letto.
Dopo cena c’era sempre qualcuno dei ragazzi più grandi che doveva studiare fino a tardi perché il giorno dopo c’era un compito importante o un esame, ed allora stavamo un po’ in compagnia a chiacchierare nella calda serata indiana.
È stata proprio una vita familiare, normale, ma con molto affetto e partecipazione da parte di tutti. Speriamo di essere riusciti a ricreare per questi sfortunati ma coraggiosi ragazzi un po’ di quell’ambiente familiare che la vita gli ha negato.
Li ringrazio per le migliaia di bellissimi sorrisi che mi hanno regalato.
Massimo